Ricordo un gioco d’avventura che ci appassionò a metà degli anni novanta. Da poco i PC si erano diffusi capillarmente, c’era ancora incanto nel nostro approccio al mezzo. Ci giocammo in gruppo. Si doveva indagare su qualcosa interpellando i personaggi di un paese. Ci si muoveva, virtualmente, nel raggio di qualche chilometro. Dopo aver raccolto un certo indizio si doveva cercare un qualche oggetto e poi ancora un altro indizio e così via. L’entusiasmo fu tale che acquistai il CD-ROM per proseguire da solo, dopo che il gruppo si fu arenato. La magia continuò nella mia stanza finché arrivai ad una impasse. Per qualche ora ripercorsi i posti cui si poteva accedere ottenendo sempre le stesse risposte. Le stesse anche come forma. Chi aveva progettato il gioco non si era preoccupato di scoraggiare chi tentasse più volte la stessa via. Non ricordo se da quella impasse riuscii a liberarmi o se abbandonai il gioco, ricordo invece la ripetizione ossessiva di quelle formule. Poco male, era un gioco.
Spesso, tuttavia, la vita offre impasse simili a quelle del gioco. Per uscirne ci si rivolge sempre alle stesse persone, talvolta, peggio ancora, la persona in gioco è una sola. Si ottengono, fatalmente, le stesse risposte più e più volte. E con quanta ottusa determinazione si continua a insistere. Bisogna trovare il modo di smettere e cambiare strada. Sicuramente la soluzione è altrove, in strade ancora non considerate.